Puppa e la recita in(i)nterrotta (su resistenze quotidiane)

Se il cielo è vuoto, se non si ha più nostalgia per il sacro, anzi lo si sbeffeggia, se non si crede più possibile una palingenesi sociale ed economica che radicalmente rimetta in ordine le ingiustizie tra chi vive (pochi) in una ricchezza esorbitante e tra chi (la stragrande maggioranza dell’umanità) è al di sotto dei livelli minimi di sussistenza, allora ci si richiude nel perimetro garantito ma stanco di una laicità borghese che non ha più molto da chiedere alla vita. Certo, sarà ancora possibile sfogliare in modo distratto e annoiato le pagine di Repubblica o mandare qualche invettiva a Salvini, come fa Piero nella “Collina di Euridice” (commedia di Paolo Puppa, Premio Pirandello ’96), o alzare muri intorno alle nostre rassicuranti villette a schiera con giardino e pitbull per paura dello “straniero”, ma resterà immedicabile l’incapacità di capire il senso più profondo dell’esistenza. Ed ecco, allora, che risulterà addirittura benemerita l’azione di un virus venuto da lontano o la guerra alle nostre porte per fare il lavoro tanto sporco quanto necessario di interrompere la catena generazionale. “Meglio sarebbe stato non nascere”, come dicevano un po’ retoricamente gli antichi greci e ribadito a gran voce dal grande Giacomino Leopardi nelle Operette morali, richiamato legittimamente da Puppa nella breve prefazione di un suo prezioso volume, “Il teatro della pandemia”. [continua a leggere l’articolo di Pasquale De Cristofaro QUI]