Andrea o i vetri in testa (pubblicato su Ytali)

I rapporti col mio vicino di casa Andrea Naccari non sono stati esaltanti all’inizio. Appena arrivato nel nostro caseggiato, se si può chiamare così un palazzo storico del Quattrocento, dall’ultimo piano dove si era insediato con moglie e inizio di figliolanza costui si è manifestato lasciando aperta, durante i lavori di ripristino del suo appartamento, una finestra della cucina. E di notte, grazie a una bufera di vento, il vetro s’è schiantato precipitando come un meteorite in basso, nel mio terrazzo di sotto, e più giù in giardino, seminando frammenti nelle aiuole, con mia moglie avvilita per le sue amate pianticelle. Ma noi tutti, stando a piano terra e al primo piano, abbiamo rischiato di brutto. Quella volta, abbiamo sfiorato persino una causa. Risultato, per fortuna sotto l’egida di un giudice di pace, una conciliazione con piccolo risarcimento e l’offerta da parte del giovane Andrea, allora poco più che trentenne, di una deliziosa bottiglietta di vetro, fatta colle sue mani di vetraio dotato, e già apprezzato in giro. Davvero un paradosso, un vetraio che rischia di ucciderti colla sua materia per sbadataggine, come un medico chirurgo che ti inciampi addosso col suo bisturi. “Superior stabat lupus”, sentenziava Fedro nella sua favoletta a tal proposito. [continua a leggere su Ytali]

Puppa e la recita in(i)nterrotta (su resistenze quotidiane)

Se il cielo è vuoto, se non si ha più nostalgia per il sacro, anzi lo si sbeffeggia, se non si crede più possibile una palingenesi sociale ed economica che radicalmente rimetta in ordine le ingiustizie tra chi vive (pochi) in una ricchezza esorbitante e tra chi (la stragrande maggioranza dell’umanità) è al di sotto dei livelli minimi di sussistenza, allora ci si richiude nel perimetro garantito ma stanco di una laicità borghese che non ha più molto da chiedere alla vita. Certo, sarà ancora possibile sfogliare in modo distratto e annoiato le pagine di Repubblica o mandare qualche invettiva a Salvini, come fa Piero nella “Collina di Euridice” (commedia di Paolo Puppa, Premio Pirandello ’96), o alzare muri intorno alle nostre rassicuranti villette a schiera con giardino e pitbull per paura dello “straniero”, ma resterà immedicabile l’incapacità di capire il senso più profondo dell’esistenza. Ed ecco, allora, che risulterà addirittura benemerita l’azione di un virus venuto da lontano o la guerra alle nostre porte per fare il lavoro tanto sporco quanto necessario di interrompere la catena generazionale. “Meglio sarebbe stato non nascere”, come dicevano un po’ retoricamente gli antichi greci e ribadito a gran voce dal grande Giacomino Leopardi nelle Operette morali, richiamato legittimamente da Puppa nella breve prefazione di un suo prezioso volume, “Il teatro della pandemia”. [continua a leggere l’articolo di Pasquale De Cristofaro QUI]

La fine del mondo: una vita in serie, recensione di Alfredo Sgroi

La sfilata dell’ordinaria follia comincia. In un ambiente asettico, cioè un anonimo ufficio, si consuma il dramma a distanza di un’anziana costretta da familiari cinici a lasciare la sua abitazione… Ancora più violenta è la vita di un mostro che si cela sotto i panni di un placido pensionato precoce. Costui confessa con sconcertante distacco una catena di atroci delitti. Pura espressione di una brutalità senza senso. Di una follia che esplode tra le calli veneziane, declinando verso la perversione sessuale, all’interno di una sfera familiare in cui il mostro si acquatta, pronto a colpire a tradimento. Perché è all’interno della famiglia che esplodono i drammi più dilanianti… Così è in un monologo in cui è riformulata l’immagine di un figlio giunto al capolinea di un’esistenza sordida da voyeur, incagliata tra l’edipica ostilità nei confronti del Padre e la rancorosa relazione con gli altri familiari… E così è per un tarato scrittore frustrato e vagamente omosessuale, inferocito con la sorella lesbica e coinvolto in una devastante crisi coniugale che si incrocia con il fallimento professionale. Come ossessionato è Lorenzo, genero di Shylock. O il lupo che, in un’atmosfera surreale, racconta a suo modo la vera storia di Cappuccetto rosso, dilaniata da un branco di lupi. Dal surreale si passa al virtuale – ma è un virtuale tristemente ancorato alla peggiore realtà – e poi a un insieme di schegge diaristiche [continua a leggere su Mangialibri]

Paolo Puppa, finzione e morale (su Succede oggi)

Il celebre storico del teatro Paolo Puppa raccoglie una serie di frammenti per la scena nei quali la finzione dialoga con la morale. Perché l’aggressione seriale delle immagini imposte dai telefonini si combatte solo con il teatro

Storico del teatro tra i più prestigiosi in Italia, Paolo Puppa da tempo è anche – come dire? – un performer che mette in scena la sua perizia critica. Si può sostenere a buona ragione, anzi, che abbia inventato un nuovo genere di derivazione saggistica, ma di fatto pienamente teatrale, poiché Puppa i suoi “testi” (fiction scenica con un solido aggancio alla critica delle idee) li mette in scena in prima persona, esponendosi come attore. O performer, appunto, come è meglio affermare. [continua a leggere su SuccedeOggi]

Teatro della pandemia (rec, di Alfredo Sgroi su Mangialibri)

Si fa corpo e verbo un poco delirante, il Covid, nel primo dramma (Non rinuncio a te per un pipistrello). E impietosamente scava nelle ossessioni degradanti di un’umanità allo sbando. Frastornata dall’esplosione dell’epidemia, ma già ben prima infetta nell’anima dal morbo del nichilismo. Obiettivo prioritario del virus monologante è quello di far rinsavire gli uomini, e ricordare loro che il gioco della vita sta per finire. Per tutti: sovrani, capi di governo, gente comune. Inutili il confinamento o l’insensato aggrapparsi alle vecchie futilità… [si invita a proseguire la lettura su Mangialibri]

Teatro della Pandemia (uno speciale su Visioni del tragico)

Premessa

Il Diario del virus, del tutto inedito, è un monologo  uscito dalla mia penna nel 2020, durante il lockdown governativo.

Nasce nei mesi degli inevitabili arresti domiciliari, allorché il presidente dell’Ateneo Veneto, una delle più gloriose Istituzioni culturali veneziane,  ha lanciato una call con cui chiedeva di raccontare la pandemia con un contributo personale. Essendo esperto di mostri, sia come drammaturgo performer, vedi le recenti raccolte di Cronache venete e Altre scene, dove calavo miti antichi nel Nord Est di oggi in piena crisi economica e culturale, che come studioso, (tra i miei ultimi studi, interventi su  J. R. Wilcock e i suoi freaks), ho creato quasi al volo un soliloquio grottesco.  Di solito, come ricordava Walter Benjamin, i  bambini giocano al lupo per vincerne la paura. Essere il lupo per non farsi mangiare dallo stesso. Io, appartenendo alla fascia anagrafica destinata secondo le previsioni scientifiche ad essere tra le prime a cadere sul campo,  ho provato a cavalcare il panico e ho scritto questo capriccio per esorcizzarla. L’ho pure recitato nel mio studio, in mezzo ai miei libri, filmandolo col telefonino. In attesa di poter uscire a cercare pubblico, curioso della reazione. [continua la lettura su VisioniDelTragico]

La recita interrotta (rec. su L’immaginazione)

M. Antonietta Grignani, recensione a Paolo Puppa, La recita interrotta. Pirandello: la trilogia del teatro nel teatro, Bulzoni, Roma 2021, euro 19.

E’ proprio vero che un classico è un autore che non finisce mai di dire quello che ha da dire e in questo libro Paolo Puppa, noto esperto del teatro pirandelliano, lo dimostra, sia nella persona di Pirandello sia nella propria di critico affezionato. Scritto nell’anno 2020 in piena pandemia e chiusura delle biblioteche, lo studio rappresenta la riflessione dello specialista a ridosso del centenario della prima dei Sei personaggi in cerca d’autore al teatro Valle di Roma (9 maggio 1921), che scatenò al momento un putiferio di reazioni negative e di pesanti malintesi, ma fu destinato ben presto a diventare il titolo-simbolo della ‘rivoluzione’ pirandelliana a livello internazionale. Nel prologo Puppa nota una curiosa analogia tra la situazione della scena, prima che irrompano i sei personaggi (un teatro vuoto, una compagnia teatrale «disunita e mestierante», un capocomico che tenta di mettere in prova Il giuoco delle parti, cioè un testo di Pirandello stesso), tra tale situazione e il blocco di produzione nel contatto vivo con il pubblico che il confinamento della pandemia ha protratto per più di un anno non solo in Italia.  Osserva un po’ malinconicamente nella chiusa della premessa, a distanza di molti decenni dal primo suo libro sul teatro pirandelliano, che risale infatti al 1978: «Un’energia ancora in movimento, che trascina con sé detriti, scorie come gli stereotipi fastidiosi del pirandellismo, ma anche pietre preziose ad arricchire la scena futura. Se ci sarà futuro».

Corredato da note bibliografiche aggiornatissime, il lavoro prende in carico nell’ordine cronologico gli elementi della cosiddetta trilogia del teatro nel teatro, ma intesse incroci puntuali e continui con spunti e temi frequentati altrove da Pirandello, nella narrativa, nelle riflessioni critiche e perfino in alcuni trattamenti cinematografici. Per i Sei personaggi si ricordano lo scenario scritto senza esito di realizzazione con Adolf Lantz, che, diversamente dalla pièce teatrale, ruotava intorno alla figura dell’Autore alla scrivania assediato dai personaggi; ancora prima la novella Quand’ero matto e i Colloqui coi personaggi. L’analisi della materia scabrosa legata a un potenziale incesto e al macrotema “la famiglia che uccide” è sottile, attenta alle varianti che furono introdotte nelle successive edizioni, sempre verificata su passaggi precisi del testo. Altro pregio del discorso di Puppa è l’attenzione alle rappresentazioni, per esempio quella del 1925 con interprete nella veste della Figliastra proprio la Musa dell’anziano commediografo Marta Abba, che era coetanea della figlia di Pirandello Lietta, andata in Cile con il marito Manuel Aguirre, per la quale il padre nutriva un «sentimento trasparente di siciliana gelosia». Con delicatezza e senza oltranze interpretative Puppa mostra in quali forme si realizzi la demonizzazione della famiglia tra il sottofondo biografico e il gioco dell’arte.

Per Ciascuno a suo modo, ripresa in chiave metateatrale di temi drammatici o meglio melodrammatici di Si gira … (intitolato poi Quaderni di Serafino Gubbio operatore), il suicidio dell’artista e le altre figure che ruotano intorno al triangolo, al fattaccio di cronaca e di chi ci ragiona intorno, sono in realtà pretesto per esibire in scena – ma anche mettere in forse – la duplicazione teatrale e quindi intrigare la ricezione, ponendo a soqquadro la scena che sfonda la quarta parete. Anche qui Puppa lavora tra rinvii di intertestualità interna, echi di cronaca nera a sfondo giornalistico che potrebbero avere influenzato Pirandello, sollecitazioni di tipi alla moda come la figura della vamp nevrotica e distruttrice di partner maschili per ribadire, al di là delle infinite variazioni, «la scoperta improvvisa da parte dell’io, nello sguardo dell’interlocutore, di essere diverso da come il primo si immagina». La storia delle rappresentazioni, la prima del maggio 1924 ai Filodrammatici di Milano e quella parigina del 1926 nella traduzione di Benjamin Crémieux, ripercorre entusiasmi e incomprensioni che all’inizio caratterizzano l’accoglimento delle innovazioni pirandelliane.

L’azione scenica espansa negli sconfinamenti fuori dal palco torna in Questa sera si recita a soggetto, altra pièce studiatissima dalla critica, riportata da Paolo Puppa alle sue dimensioni storiche e di contesto, comprese le varie rappresentazioni più o meno turbolente e gli aggiornamenti bibliografici. La drammaturgia confezionata per il sistema tedesco, la macchina scenica fitta e destabilizzante, il riassorbimento della novella Leonora, addio!, l’orrore di una passione malsana ossia l’inferno di coppia, il cruccio sulla centralità dell’Autore, tutto amplifica temi e modi messi all’opera nei due precedenti drammi.

Insomma, il ritorno di un noto storico del teatro (a sua volta autore) va festeggiato nella coerenza di una intera carriera di specialista e nella perdurante attualità di un classico del Novecento.

La recita interrotta, recensione di Alfredo Sgroi

Segnaliamo la recensione di Alfredo Sgroi a La recita interrotta. Pirandello: la trilogia del teatro nel teatro, Bulzoni Editore, Roma, uscita su Campi immaginabili. Si può leggere qui di seguito:

L’ultima fatica pirandelliana di Paolo Puppa, che allo scrittore siciliano ha dedicato nel corso degli anni numerosi saggi di capitale rilevanza, è anzitutto una suggestiva indagine sui meccanismi interni della produzione dello scrittore siciliano. Una nuova chicca critica confezionata per gli studiosi e i lettori dell’opera di Pirandello, ai quali lo stesso Puppa sa sempre riservare sorprese e proporre nuovi spunti ermeneutici. Diciamo subito che il titolo, così puntuale nel definire il recinto entro cui dovrebbe dipanarsi il discorso critico può trarre in inganno. Perché in questo agile e densissimo volume, non solo di teatro, e di teatro nel teatro, si discute. La classica trilogia metateatrale è  infatti il perno centrale attorno al quale ruota la trattazione, e il filo rosso che ne lega i diversi momenti è «la recita interrotta» e abortita. Ma altro ribolle in queste pagine erudite e appassionate, frutto non solo di una lunga consuetudine con il mondo pirandelliano, ma di un vero e proprio atto d’amore che resiste al dileguare inesorabile del tempo.

La scena pirandelliana, argomenta Puppa, è certamente connotata dall’inquietante e quasi ossessivo ricorso all’interruzione, là dove il termine deve essere inteso nella sua accezione etimologica di «momento di frattura» (inter-rompo); di lacerazione improvvisa che spezza traumaticamente la linearità dell’intreccio e getta lo scompiglio tra gli ingranaggi della macchina teatrale. Lo studioso non si limita però a proporre questa cruciale chiave interpretativa: va ben oltre. Se si vuole, così tradisce felicemente l’intento esibito nel titolo per sprofondare, e far sprofondare il lettore, nell’abisso dell’immaginario e del vissuto dello scrittore siciliano, per cogliervi le ragioni profonde della fascinazione esercitata su Pirandello dalle spiazzanti lacerazioni della messa in scena; dalle fratture che sfrangiano personaggi e vicende; dalle conclusioni mancate (la vita non conclude, teorizzava il Don Cosmo Laurentano di I vecchi e i giovani) perché segmenti di vuoto interrompono, bloccando definitivamente, il decorso della realtà e della finzione. Da qui emerge l’immagine scivolosa di uno scrittore enigmatico e scomodo, che sulla scena trasla le sue (e le nostre?) ossessioni e i suoi insanabili conflitti interiori. Ora, perché tutto questo accade? Questa è la domanda da cui lo studioso parte per il suo personale viaggio à rebour nell’arte pirandelliana, riallacciandosi idealmente a quel lontano (e ormai classico) Fantasmi contro giganti apparso nel 1978, e pionieristicamente incentrato sul favoloso coronamento della trilogia metateatrale: su quei Giganti della montagna, cioè, che ormai in tanti considerano il capolavoro teatrale di Pirandello. Nel Prologo Puppa, ammiccando al lettore e reclamandone la disponibile complicità, avverte: «torno indietro a rileggermi le prime tre partiture», colorando  con un tocco di nostalgia (sua e del lettore) questa nuova esplorazione della trilogia.

Si comincia, e non poteva essere altrimenti, con i Sei personaggi in cerca d’autore (pp. 13-71), prima tappa della trilogia stessa che ha i foschi colori del lutto, come si segnala nella seconda parte del titolo: La famiglia che uccide. La morte, dunque, e la morte violenta maturata nell’inferno familiare è la prima (e non sola) componente che caratterizza per lo studioso il plot di quest’opera teatrale. Con una sorta di racconto critico, condotto sul filo della narrazione, Puppa ne ricostruisce con il piglio dell’affabulatore di razza l’itinerario scenico e compositivo, a partire dal clamoroso insuccesso romano del 1921, che certo non lasciava presagire nulla buono. Salvo poi rivelarsi Un fortunato fallimento (pp. 13-15), per dirla con una formula ossimorica ed efficacissima che lo studioso conia per segnalare un dato storico fondamentale: la tempestosa messa in scena romana, sfociata in una caduta apparentemente senza appello, innesca paradossalmente la marcia trionfale dei Sei personaggi, destinati a diventare non solo la piéce più celebre tra quelle composte da Pirandello, in virtù anche delle revisioni successive sollecitate dall’esito contrastato della «Prima», ma un autentico concentrato degli ingredienti tipici del suo teatro e il detonatore di una rivoluzione teatrale. Ecco dunque, nella descrizione iniziale di Puppa, la scena vuota in cui cominciano a sfilare i componenti della Compagnia che deve mettere in scena Il giuoco delle parti. Qui, come per magia, irrompe «una famiglia allargata e squinternata», coinvolta in una fosca tragedia in cui si assembra «un cumulo insolito di atrocità»: dall’incesto sfiorato alla morte violenta di due fanciulli, passando per la prostituzione della Figliastra. Tutto ciò è avvenuto, eppure, su richiesta del Padre e della stessa Figliastra, tutto deve ripetersi sulla scena. Il progetto, come è noto, fallisce perché non soltanto l’Autore ha rigettato le pretese dei suoi personaggi, ma anche perché la macchina scenica tradizionale si rivela inadeguata a rappresentare il dramma. Eppure, sottolinea Puppa, lo scacco reiterato e la sua messa in scena si rivela insolitamente fecondo: «mai un fallimento è risultato tanto produttivo per il drammaturgo» (p. 14). Mai un concepimento abortito, si può aggiungere, è stato così lucroso per l’autore che, nel complesso gioco della finzione, si è rifiutato di «partorire» i personaggi che pure sono stati in gestazione nella sua fantasia creativa. Se la loro origine resta avvolta nelle nebbie del mistero, pure è chiaro che la loro irruzione in scena obbedisce ad un preciso impulso dell’autore che, non a caso, scrivendo dell’opera dichiara di essersi così liberato da un incubo. Partendo da questa vera e propria confessione Puppa punta il suo sguardo indagatore sulle ragioni di questo stesso «incubo»; ne rintraccia scorie e sedimenti in diversi testi precedenti e nella tormentata biografia dell’autore. Qui urge infatti il meduseo desiderio incestuoso, affascinante e repellente; qui scalpita una Fantasia (quella dell’Autore) «vestita sempre a lutto» (p. 19), sempre tesa a disgregare e corrodere, e a frequentare i territori eccentrici della condizione patologica. L’opera diventa perciò un farmaco omeopatico per lo stesso Pirandello, e nel momento stesso in cui imbastisce una galleria di personaggi spiazzanti, devianti e tarati. Così, la Figliastra è l’ennesima epifania della ragazza corrotta «da maschi assatanati», imparentata con le fanciulle inquietanti di Come prima meglio di prima e di Vestire gli ignudi (p. 29). L’eros, dunque, travolge e talvolta uccide. Nei Sei personaggi come altrove. Lo conferma, nella sua fisionomia mutante nel passaggio da una redazione all’altra, il Padre, principale indiziato del crimine familiare e, soprattutto, ennesima rappresentazione del «prototipo del borghese animalesco dentro e filisteo fuori» (p. 33), anch’egli simile ad altri personaggi pirandelliani.

Di notevole suggestione e spessore è anche la puntigliosa analisi della fenomenologia della psiche femminile che Puppa svolge, ancora una volta, comparando materiale novellistico e teatrale, mettendo così in rilievo come spesso lo scrittore presenta figure femminili instabili e volubili, nervosamente cangianti, proprio come è il caso della Figliastra. In ciò degna espressione di una realtà, quella familiare, che ha le stimmate demoniache del male, riducendosi ad una sfera relazionale forzata, entro la quale «si muore e si uccide», entro uno spazio claustrofobico e sinistramente fagocitante, in cui si dibattono e spesso soccombono i personaggi pirandelliani, poiché «tutte le creature nell’opera pirandelliana […] sono prigioniere del carcere familiare, spinte ad un reciproco cannibalismo» (p. 41). Puppa propone a questo proposito un intrigante paragone con Stefano Giogli uno e due, a confermare un approccio comparativo e problematico.

Non vi è dubbio comunque, aggiunge lo studioso, che nei Sei personaggi si susseguono a ritmo vorticoso dei veri e propri cortocircuiti: quello tra attori e personaggi, in primis, con le schermaglie che attestano un esplicito «scontro tra i due mondi» (p. 46);  poi quello tra il Capocomico dalla labile identità, sospeso com’è tra capocomicato tradizionale e nuova condizione registica, e i Personaggi, che col Padre ad un certo punto riescono ad adescarlo e a persuaderlo a farsi addirittura «autore». E c’è poi, ad alimentare la conflittualità sulla scena, lo sfarinamento della figura d’autorità per eccellenza: proprio quel «Padre detronizzato» (pp. 53-58) che condivide il destino di altre simili creature di Pirandello. Il che, considerata l’eclissi del principio di autorità, rende impossibile una soluzione ordinata e lascia libero il campo al trionfo del caos. Così, conclude Puppa, accade che la tragedia abortisce e la soluzione catartica tentata sul palcoscenico si risolve in uno scacco cocente, poiché la parola, che avrebbe dovuto essere un balsamo terapeutico e sanare le ferite aperte, al contrario le acuisce. Si verifica, insomma, una cupa eterogenesi dei fini o, se si vuole, un compiaciuto e dissacrante sovvertimento di tutti i canoni: scenici, tematici, perfino etici. A chiudere questa prima sezione del saggio (come per le successive) è una preziosa Nota al testo (pp. 64-71), corredata da una succinta ma raffinata bibliografia.

Ciascuno a suo modo è il secondo momento della «trilogia». Anche in questo caso non mancano nell’intervento di Puppa notazioni sorprendenti e acute, nonché comparazioni stimolanti con altre opere pirandelliane, e non solo. Segnaliamo qui il parallelismo tra il raisonneur Diego Cinci e Serafino Gubbio, protagonista dell’omonimo romanzo; o, ancora le interferenze con Il giuoco delle parti (p. 79) e il Così è (se vi pare), con una collaterale puntata sul teatro di Brecht e sull’opera di Weininger. Elementi innovatori, chiarisce Puppa, connotano la struttura della piéce. Pirandello si esibisce infatti in un arduo gioco combinatorio sperimentale, compiacendo la sua pervicace voluttà di provocazione, veicolata in questo caso contro il pubblico bigotto e i critici astiosi, anche per avere una sorta di rivalsa personale. Tutti ingredienti, questi, che spingono Puppa a suggerire altre interferenze: con il Futurismo, ad esempio, o con il laboratorio di Joyce. Tenendo fermo che «tutta la pagina narrativa pirandelliana mostra un’esplosiva vocazione all’oralità e all’opzione monologante», perciò giocoforza contigua con i codici espressivi del teatro, nell’ambito di una insopprimibile e maniacale coazione a ripetere, puntualmente segnalata dallo studioso e individuata come una cifra interpretativa essenziale per cogliere le caratteristiche peculiari della commedia: «Ciascuno a suo modo declina con energie ora rinnovate ora logore le priorità dell’universo pirandelliano» (p.105); un universo che concentra in sé i vari generi saggiati dallo scrittore siciliano. Il che si coglie anche nel terzo momento della trilogia, in cui la frammentazione, il caos, le conflittualità irrisolte, sfociano per lo studioso in una «Disarmonia prestabilita» che, provocatoriamente, scivola in un «eccesso del metateatro», incerto ma plausibile. Puppa conduce quindi per mano il lettore in quell’autentico labirinto che è Questa sera si recita a soggetto, evidenziando la presenza delle consuete «vite tribolate e luttuose» (p. 137); degli eccessi e degli squilibri che minano dalle fondamenta il traballante istituto familiare. Sul palcoscenico si consuma l’ennesimo blocco, che neppure l’aspirante demiurgo-regista, pomposamente orgoglioso di accentrare in sé la direzione della macchina scenica, svilendo il ruolo dell’autore anzitutto, e degli interpreti poi, riesce a risolvere. Alla fine l’ingorgo drammatico, se possibile, si addensa ancora di più, scatenando la reazione di attori e pubblico, in una bagarre che sancisce il sinistro trionfo della «tensione alla decomposizione».

Miscelando dunque la componente informativa con quella analitica, in una sintesi nella quale si addensa l’immaginario e la teoresi pirandelliana Puppa, anche in questo saggio, traccia un quadro di ampio respiro nel quale la scena, la scrittura, le manie esistenziali e le opzioni estetiche e filosofiche si incrociano per intrecciare una fitta trama di interferenze. Merito di Puppa, tra l’altro, è anche quello di non avere isolato l’oggetto della sua indagine, immergendolo nel ribollente calderone dell’arte pirandelliana, mantenendone aperti i canali osmotici.

ALFREDO SGROI