La fine del mondo: una vita in serie, recensione di Alfredo Sgroi

La sfilata dell’ordinaria follia comincia. In un ambiente asettico, cioè un anonimo ufficio, si consuma il dramma a distanza di un’anziana costretta da familiari cinici a lasciare la sua abitazione… Ancora più violenta è la vita di un mostro che si cela sotto i panni di un placido pensionato precoce. Costui confessa con sconcertante distacco una catena di atroci delitti. Pura espressione di una brutalità senza senso. Di una follia che esplode tra le calli veneziane, declinando verso la perversione sessuale, all’interno di una sfera familiare in cui il mostro si acquatta, pronto a colpire a tradimento. Perché è all’interno della famiglia che esplodono i drammi più dilanianti… Così è in un monologo in cui è riformulata l’immagine di un figlio giunto al capolinea di un’esistenza sordida da voyeur, incagliata tra l’edipica ostilità nei confronti del Padre e la rancorosa relazione con gli altri familiari… E così è per un tarato scrittore frustrato e vagamente omosessuale, inferocito con la sorella lesbica e coinvolto in una devastante crisi coniugale che si incrocia con il fallimento professionale. Come ossessionato è Lorenzo, genero di Shylock. O il lupo che, in un’atmosfera surreale, racconta a suo modo la vera storia di Cappuccetto rosso, dilaniata da un branco di lupi. Dal surreale si passa al virtuale – ma è un virtuale tristemente ancorato alla peggiore realtà – e poi a un insieme di schegge diaristiche [continua a leggere su Mangialibri]

Teatro della pandemia (rec, di Alfredo Sgroi su Mangialibri)

Si fa corpo e verbo un poco delirante, il Covid, nel primo dramma (Non rinuncio a te per un pipistrello). E impietosamente scava nelle ossessioni degradanti di un’umanità allo sbando. Frastornata dall’esplosione dell’epidemia, ma già ben prima infetta nell’anima dal morbo del nichilismo. Obiettivo prioritario del virus monologante è quello di far rinsavire gli uomini, e ricordare loro che il gioco della vita sta per finire. Per tutti: sovrani, capi di governo, gente comune. Inutili il confinamento o l’insensato aggrapparsi alle vecchie futilità… [si invita a proseguire la lettura su Mangialibri]

La recita interrotta, recensione di Alfredo Sgroi

Segnaliamo la recensione di Alfredo Sgroi a La recita interrotta. Pirandello: la trilogia del teatro nel teatro, Bulzoni Editore, Roma, uscita su Campi immaginabili. Si può leggere qui di seguito:

L’ultima fatica pirandelliana di Paolo Puppa, che allo scrittore siciliano ha dedicato nel corso degli anni numerosi saggi di capitale rilevanza, è anzitutto una suggestiva indagine sui meccanismi interni della produzione dello scrittore siciliano. Una nuova chicca critica confezionata per gli studiosi e i lettori dell’opera di Pirandello, ai quali lo stesso Puppa sa sempre riservare sorprese e proporre nuovi spunti ermeneutici. Diciamo subito che il titolo, così puntuale nel definire il recinto entro cui dovrebbe dipanarsi il discorso critico può trarre in inganno. Perché in questo agile e densissimo volume, non solo di teatro, e di teatro nel teatro, si discute. La classica trilogia metateatrale è  infatti il perno centrale attorno al quale ruota la trattazione, e il filo rosso che ne lega i diversi momenti è «la recita interrotta» e abortita. Ma altro ribolle in queste pagine erudite e appassionate, frutto non solo di una lunga consuetudine con il mondo pirandelliano, ma di un vero e proprio atto d’amore che resiste al dileguare inesorabile del tempo.

La scena pirandelliana, argomenta Puppa, è certamente connotata dall’inquietante e quasi ossessivo ricorso all’interruzione, là dove il termine deve essere inteso nella sua accezione etimologica di «momento di frattura» (inter-rompo); di lacerazione improvvisa che spezza traumaticamente la linearità dell’intreccio e getta lo scompiglio tra gli ingranaggi della macchina teatrale. Lo studioso non si limita però a proporre questa cruciale chiave interpretativa: va ben oltre. Se si vuole, così tradisce felicemente l’intento esibito nel titolo per sprofondare, e far sprofondare il lettore, nell’abisso dell’immaginario e del vissuto dello scrittore siciliano, per cogliervi le ragioni profonde della fascinazione esercitata su Pirandello dalle spiazzanti lacerazioni della messa in scena; dalle fratture che sfrangiano personaggi e vicende; dalle conclusioni mancate (la vita non conclude, teorizzava il Don Cosmo Laurentano di I vecchi e i giovani) perché segmenti di vuoto interrompono, bloccando definitivamente, il decorso della realtà e della finzione. Da qui emerge l’immagine scivolosa di uno scrittore enigmatico e scomodo, che sulla scena trasla le sue (e le nostre?) ossessioni e i suoi insanabili conflitti interiori. Ora, perché tutto questo accade? Questa è la domanda da cui lo studioso parte per il suo personale viaggio à rebour nell’arte pirandelliana, riallacciandosi idealmente a quel lontano (e ormai classico) Fantasmi contro giganti apparso nel 1978, e pionieristicamente incentrato sul favoloso coronamento della trilogia metateatrale: su quei Giganti della montagna, cioè, che ormai in tanti considerano il capolavoro teatrale di Pirandello. Nel Prologo Puppa, ammiccando al lettore e reclamandone la disponibile complicità, avverte: «torno indietro a rileggermi le prime tre partiture», colorando  con un tocco di nostalgia (sua e del lettore) questa nuova esplorazione della trilogia.

Si comincia, e non poteva essere altrimenti, con i Sei personaggi in cerca d’autore (pp. 13-71), prima tappa della trilogia stessa che ha i foschi colori del lutto, come si segnala nella seconda parte del titolo: La famiglia che uccide. La morte, dunque, e la morte violenta maturata nell’inferno familiare è la prima (e non sola) componente che caratterizza per lo studioso il plot di quest’opera teatrale. Con una sorta di racconto critico, condotto sul filo della narrazione, Puppa ne ricostruisce con il piglio dell’affabulatore di razza l’itinerario scenico e compositivo, a partire dal clamoroso insuccesso romano del 1921, che certo non lasciava presagire nulla buono. Salvo poi rivelarsi Un fortunato fallimento (pp. 13-15), per dirla con una formula ossimorica ed efficacissima che lo studioso conia per segnalare un dato storico fondamentale: la tempestosa messa in scena romana, sfociata in una caduta apparentemente senza appello, innesca paradossalmente la marcia trionfale dei Sei personaggi, destinati a diventare non solo la piéce più celebre tra quelle composte da Pirandello, in virtù anche delle revisioni successive sollecitate dall’esito contrastato della «Prima», ma un autentico concentrato degli ingredienti tipici del suo teatro e il detonatore di una rivoluzione teatrale. Ecco dunque, nella descrizione iniziale di Puppa, la scena vuota in cui cominciano a sfilare i componenti della Compagnia che deve mettere in scena Il giuoco delle parti. Qui, come per magia, irrompe «una famiglia allargata e squinternata», coinvolta in una fosca tragedia in cui si assembra «un cumulo insolito di atrocità»: dall’incesto sfiorato alla morte violenta di due fanciulli, passando per la prostituzione della Figliastra. Tutto ciò è avvenuto, eppure, su richiesta del Padre e della stessa Figliastra, tutto deve ripetersi sulla scena. Il progetto, come è noto, fallisce perché non soltanto l’Autore ha rigettato le pretese dei suoi personaggi, ma anche perché la macchina scenica tradizionale si rivela inadeguata a rappresentare il dramma. Eppure, sottolinea Puppa, lo scacco reiterato e la sua messa in scena si rivela insolitamente fecondo: «mai un fallimento è risultato tanto produttivo per il drammaturgo» (p. 14). Mai un concepimento abortito, si può aggiungere, è stato così lucroso per l’autore che, nel complesso gioco della finzione, si è rifiutato di «partorire» i personaggi che pure sono stati in gestazione nella sua fantasia creativa. Se la loro origine resta avvolta nelle nebbie del mistero, pure è chiaro che la loro irruzione in scena obbedisce ad un preciso impulso dell’autore che, non a caso, scrivendo dell’opera dichiara di essersi così liberato da un incubo. Partendo da questa vera e propria confessione Puppa punta il suo sguardo indagatore sulle ragioni di questo stesso «incubo»; ne rintraccia scorie e sedimenti in diversi testi precedenti e nella tormentata biografia dell’autore. Qui urge infatti il meduseo desiderio incestuoso, affascinante e repellente; qui scalpita una Fantasia (quella dell’Autore) «vestita sempre a lutto» (p. 19), sempre tesa a disgregare e corrodere, e a frequentare i territori eccentrici della condizione patologica. L’opera diventa perciò un farmaco omeopatico per lo stesso Pirandello, e nel momento stesso in cui imbastisce una galleria di personaggi spiazzanti, devianti e tarati. Così, la Figliastra è l’ennesima epifania della ragazza corrotta «da maschi assatanati», imparentata con le fanciulle inquietanti di Come prima meglio di prima e di Vestire gli ignudi (p. 29). L’eros, dunque, travolge e talvolta uccide. Nei Sei personaggi come altrove. Lo conferma, nella sua fisionomia mutante nel passaggio da una redazione all’altra, il Padre, principale indiziato del crimine familiare e, soprattutto, ennesima rappresentazione del «prototipo del borghese animalesco dentro e filisteo fuori» (p. 33), anch’egli simile ad altri personaggi pirandelliani.

Di notevole suggestione e spessore è anche la puntigliosa analisi della fenomenologia della psiche femminile che Puppa svolge, ancora una volta, comparando materiale novellistico e teatrale, mettendo così in rilievo come spesso lo scrittore presenta figure femminili instabili e volubili, nervosamente cangianti, proprio come è il caso della Figliastra. In ciò degna espressione di una realtà, quella familiare, che ha le stimmate demoniache del male, riducendosi ad una sfera relazionale forzata, entro la quale «si muore e si uccide», entro uno spazio claustrofobico e sinistramente fagocitante, in cui si dibattono e spesso soccombono i personaggi pirandelliani, poiché «tutte le creature nell’opera pirandelliana […] sono prigioniere del carcere familiare, spinte ad un reciproco cannibalismo» (p. 41). Puppa propone a questo proposito un intrigante paragone con Stefano Giogli uno e due, a confermare un approccio comparativo e problematico.

Non vi è dubbio comunque, aggiunge lo studioso, che nei Sei personaggi si susseguono a ritmo vorticoso dei veri e propri cortocircuiti: quello tra attori e personaggi, in primis, con le schermaglie che attestano un esplicito «scontro tra i due mondi» (p. 46);  poi quello tra il Capocomico dalla labile identità, sospeso com’è tra capocomicato tradizionale e nuova condizione registica, e i Personaggi, che col Padre ad un certo punto riescono ad adescarlo e a persuaderlo a farsi addirittura «autore». E c’è poi, ad alimentare la conflittualità sulla scena, lo sfarinamento della figura d’autorità per eccellenza: proprio quel «Padre detronizzato» (pp. 53-58) che condivide il destino di altre simili creature di Pirandello. Il che, considerata l’eclissi del principio di autorità, rende impossibile una soluzione ordinata e lascia libero il campo al trionfo del caos. Così, conclude Puppa, accade che la tragedia abortisce e la soluzione catartica tentata sul palcoscenico si risolve in uno scacco cocente, poiché la parola, che avrebbe dovuto essere un balsamo terapeutico e sanare le ferite aperte, al contrario le acuisce. Si verifica, insomma, una cupa eterogenesi dei fini o, se si vuole, un compiaciuto e dissacrante sovvertimento di tutti i canoni: scenici, tematici, perfino etici. A chiudere questa prima sezione del saggio (come per le successive) è una preziosa Nota al testo (pp. 64-71), corredata da una succinta ma raffinata bibliografia.

Ciascuno a suo modo è il secondo momento della «trilogia». Anche in questo caso non mancano nell’intervento di Puppa notazioni sorprendenti e acute, nonché comparazioni stimolanti con altre opere pirandelliane, e non solo. Segnaliamo qui il parallelismo tra il raisonneur Diego Cinci e Serafino Gubbio, protagonista dell’omonimo romanzo; o, ancora le interferenze con Il giuoco delle parti (p. 79) e il Così è (se vi pare), con una collaterale puntata sul teatro di Brecht e sull’opera di Weininger. Elementi innovatori, chiarisce Puppa, connotano la struttura della piéce. Pirandello si esibisce infatti in un arduo gioco combinatorio sperimentale, compiacendo la sua pervicace voluttà di provocazione, veicolata in questo caso contro il pubblico bigotto e i critici astiosi, anche per avere una sorta di rivalsa personale. Tutti ingredienti, questi, che spingono Puppa a suggerire altre interferenze: con il Futurismo, ad esempio, o con il laboratorio di Joyce. Tenendo fermo che «tutta la pagina narrativa pirandelliana mostra un’esplosiva vocazione all’oralità e all’opzione monologante», perciò giocoforza contigua con i codici espressivi del teatro, nell’ambito di una insopprimibile e maniacale coazione a ripetere, puntualmente segnalata dallo studioso e individuata come una cifra interpretativa essenziale per cogliere le caratteristiche peculiari della commedia: «Ciascuno a suo modo declina con energie ora rinnovate ora logore le priorità dell’universo pirandelliano» (p.105); un universo che concentra in sé i vari generi saggiati dallo scrittore siciliano. Il che si coglie anche nel terzo momento della trilogia, in cui la frammentazione, il caos, le conflittualità irrisolte, sfociano per lo studioso in una «Disarmonia prestabilita» che, provocatoriamente, scivola in un «eccesso del metateatro», incerto ma plausibile. Puppa conduce quindi per mano il lettore in quell’autentico labirinto che è Questa sera si recita a soggetto, evidenziando la presenza delle consuete «vite tribolate e luttuose» (p. 137); degli eccessi e degli squilibri che minano dalle fondamenta il traballante istituto familiare. Sul palcoscenico si consuma l’ennesimo blocco, che neppure l’aspirante demiurgo-regista, pomposamente orgoglioso di accentrare in sé la direzione della macchina scenica, svilendo il ruolo dell’autore anzitutto, e degli interpreti poi, riesce a risolvere. Alla fine l’ingorgo drammatico, se possibile, si addensa ancora di più, scatenando la reazione di attori e pubblico, in una bagarre che sancisce il sinistro trionfo della «tensione alla decomposizione».

Miscelando dunque la componente informativa con quella analitica, in una sintesi nella quale si addensa l’immaginario e la teoresi pirandelliana Puppa, anche in questo saggio, traccia un quadro di ampio respiro nel quale la scena, la scrittura, le manie esistenziali e le opzioni estetiche e filosofiche si incrociano per intrecciare una fitta trama di interferenze. Merito di Puppa, tra l’altro, è anche quello di non avere isolato l’oggetto della sua indagine, immergendolo nel ribollente calderone dell’arte pirandelliana, mantenendone aperti i canali osmotici.

ALFREDO SGROI       

Scene che non sono la mia (rec. di Alfredo Sgroi)

Paolo Puppa, Scene che non sono la mia. Storia e storie di violenza nel teatro tra due millenni, Corazzano, Titivillus, 2019, pp. 184, €18,00

 

Drammaturgo e studioso di lungo corso Paolo Puppa, che nel corso degli ultimi decenni ha confezionato studi dedicati alla drammaturgia contemporanea, e non solo, che si possono considerare pietre miliari per chiunque si accosti alla storia del teatro. La sua ultima fatica è questo denso volume edito da Titivillus, nel quale sono ospitati tredici saggi ispirati e composti in diverse occasioni, e quindi dedicati ad un’ampia gamma di argomenti. Si tratta in effetti di un testo in cui le singole parti possono anche essere lette in maniera autonoma, proprio per questa caratteristica. Eppure un sottile filo rosso le connette le une alle altre: la violenza, come in modo ammiccante si chiarisce nel sottotitolo. Possiamo aggiungere anche l’eccesso, la trasgressione, la declinazione di quel torbido inquietante che sedimenta nell’anima del soggetto e che, tramite autori e attori, prende corpo e sostanza sulle tavole del palcoscenico o, in alternativa, nella pagina scritta.

Le trame dell’ossessione, quindi, sono scandagliate  fittamente in questo volume che, nella sequenza di primi piani che propone, è arricchito da notazioni trasversali; da interferenze che il critico architetta basandosi su un apparato bibliografico poderoso, e su una erudizione alimentata non solo dagli studi trans-disciplinari, con sapienti dosaggi di antropologia, filologia, semiotica, psicoanalisi, filosofia, ma dalla stessa frequentazione pratica del palcoscenico (oltre la scrittura pura e semplice).

Così, scorrendo i diversi saggi di questa ricca silloge, ci si imbatte nelle questioni e nelle espressioni artistiche più disparate: dalla sapiente analisi dell’epifania del mito biblico di Abramo, seguito attraverso le piste tracciate, oltre che dalla fonte biblica primaria, da autori come Savinio, Kierkegaard, Sartre. A conferma della scelta, consapevolmente perseguita dallo studioso, di puntare su un approccio pluridisciplinare all’esame della raggelante rappresentazione della frana dell’istituto familiare che è al centro di tanta drammaturgia «notturna» del Novecento (pp. 29-42). In questo grande affresco dedicato allo spirito iconoclasta che innerva il teatro contemporaneo non poteva mancare anzitutto il riferimento, praticamente obbligato, alle Avanguardie e a Pirandello, autentici rivoluzionari della scena. E cantori di quel caos di cui lo scrittore agrigentino, con evidente compiacimento, si dichiarava «figlio». Puppa, passando in rassegna diversi testi esemplari di alcuni futuristi, oltre che di Pirandello, indugia con tocco leggero ma profondo sul carattere dirompente di una operazione culturale che punta a travolgere, non solo le consolidate regole del teatro borghese, ma anche a sciogliere tutte le incrostazioni moralistiche; tutte le pulsioni censorie e repressive.  Pirandello è, in particolare, argomento  del lungo saggio che  apre la seconda sezione del volume (Scritture in primo piano), e il lettore viene qui accompagnato idealmente in un viaggio che, attraversando epistolari e testi esemplari, si trova sorprendentemente a fare i conti con  un aspetto dello scrittore siciliano che solo di recente comincia a profilarsi chiaramente: un autore segnato da ossessioni e turbamenti, invischiato in un disturbato rapporto amoroso (abortito) con la Abba, in cui lo studioso discerne l’ennesima epifania dolorosa di quelle pulsioni incestuose che costellano diversi momenti  cruciali della vita e dell’avventura artistica dell’agrigentino. A questo saggio monotematico, se così può essere definito, seguono interventi dedicati a letture incrociate dense di suggestioni. Come quella che segnala l’ibridismo di un autore eccentrico come Kiš, autore di un Giardino, cenere e di altre opere in cui l’approccio scettico alle tematiche esistenziali, secondo Puppa, è la spia di una convergenza  con Svevo che può essere declinata in diverse direzioni.

Tra i saggi successivi segnaliamo in questa sede quello dedicato alla Trilogia di Scabia (pp. 85-98) e quello in cui si parla di un autore tra i più affascinanti e studiati, quale Kleist, di cui il critico analizza in particolare l’Anfitrione (pp. 99-116). In questa sezione, come si vede, ad essere in primo piano è soprattutto la questione della scrittura drammaturgica. Ma se ci si limitasse ad essa non si darebbe quella visione d’insieme della scena a cui in realtà punta il lavoro di Paolo Puppa. Perciò nel volume vengono inseriti alcuni saggi nei quali sono gli interpreti che calcano le scene ad attrarre l’attenzione dello studioso e del lettore. Così  in Maria Callas: una voce di carta (pp. 117-127). Così in  Gustavo Modena dramaturg e lettore di Dante (128-140). In questo contesto non poteva mancare quello straordinario mattatore che è stato Dario Fo, al quale Puppa riconosce il ruolo di autentico caposcuola nell’ambito di quel «teatro di narrazione» consacrato da artisti del calibro di Paolini.

A questo punto, senza trascurare le pennellate rapide ma precise con cui si tratteggiano altri protagonisti della scena, come Eugenio Barba, ci sembra di poter dire che ci sono tutti gli elementi indispensabili per cogliere la ricchezza di un lavoro che non può mancare nella biblioteca degli studiosi della drammaturgia contemporanea. Aggiungiamo che i saggi confluiti in questo stesso volume hanno quella vivacità e quel brio espressivo che spesso difetta nei tradizionali studi accademici, senza perciò inficiare la limpidezza della prosa.  E proprio per questo, anche per questo, la lettura di questo lavoro di Paolo Puppa risulta intrigante e appassiona. Forse, proprio perché mette insieme tessere tanto diverse a comporre un mosaico così ricco di figure che fanno il teatro della memoria e la memoria del teatro.

 

 

ALFREDO SGROI

Cronache Venete – recensione

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Paolo Puppa, Cronache venete, Corazzano, Titivillus, 2012, pp. 123.

La normalità dell’ossessione, il dilagare della psicosi, dei comportamenti disturbati è il fil rouge che salda i dodici monologhi teatrali confluiti nelle Cronache venete. “Cronache”, si badi bene, e non “Storie”, perché segnate dal più crudo realismo dell’attualità. Lo sfondo è il Veneto contemporaneo, ricco e senz’anima, palcoscenico inquietante di torbide vicende di eros, follia e morte, metafora di una condizione più generale, di un mondo cioè che sgomenta per la sua carica di malvagità, per l’assenza di valori morali positivi. È in questo ideale palcoscenico di macerie che Puppa fa sfilare uno a uno i suoi personaggi, i quali mettono a nudo le loro coscienze martoriate, “confessando” le nefandezze che ne sconciano i tratti. Marionette, si direbbe, schiacciate da passioni dirompenti, incontrollabili, magari sanzionati da una società ipocrita che si erge a vittima e a giudice di presunti carnefici partoriti in verità dal suo stesso seno. Carnefici che hanno in sé il timbro del paradigma mitico, la cui ombra, nella sua perennità, si spande tra le calli veneziane, gli interni alto-borghesi, i luoghi quasi fatati di una borghesia fatua. Si tratta però di miti che non hanno alcuna aura  metafisica: figure corpose, che vivono ossessivamente la dimensione della carnalità, aggrappati all’attimo fuggente, privi di ideali o di progetti aperti al futuro. Emblemi, insomma, di un’umanità declinante, vocata e votata al cupio dissolvi, in un’atmosfera che sovente assume  tratti tenebrosi e satanici, veri e propri “mostri” generati dall’universale sonno della ragione.

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Angeli e acque (recensione)

PAOLO PUPPA, Angeli ed acque, Corbo e Fiore, Venezia, 2003, pp. 188.

Può accadere che anche lo studioso più “accademico”, frequentando teatri e testi drammaturgici, finisca per lasciarsi fagocitare dal fascino del palcoscenico e che quindi, “dismettendo” i panni del critico, decida di diventare a sua volta scrittore di teatro. Una metamorfosi rara, e certo fuori dagli schemi consolidati. Può anche accadere che un drammaturgo, il quale divenga tale dopo un lungo tirocinio di studioso, riesca a mutare radicalmente il suo stile, creando una scrittura ancorata alla quotidianità e dalla forte connotazione evocativa e spettacolare. Lasciandosi quindi alle spalle tutte, o quasi, le “scorie” dell’attività saggistica. E’ questo quello che si è verificato per Paolo Puppa, che ha vissuto inquietamente e per intero la pratica dello studioso di teatro alternandola, in continua simbiosi, con la frequentazione del palcoscenico, a ridosso di attori e uomini di spettacolo. Ed allora il salto non è poi tanto vertiginoso e sorprendente. D’altra parte, chi conosce le opere critiche di Paolo Puppa si è imbattuto in una scrittura brillante e fascinosa, dietro la quale si coglie la capacità affabulatoria e demiurgica che aspetta una piccola scintilla, scoccata la quale lo scrittore si mostra finalmente senza reticenza, rinunciando allo “scrivere sullo scrivere”, per creare una parola capace di prendere corpo e vita sul palcoscenico, oltre che sulla pagina. Una parola, possiamo aggiungere, in cui la fantasia, disciplinata dallo studio, vira bruscamente nella dimensione della quotidianità, colta nei suoi aspetti più perturbanti. Perché lo spettatore che osserva sulla scena le performances degli interpreti del teatro di Puppa inevitabilmente avvertono i contraccolpi di una drammaturgia dell’”ossessione”, che spesso mette a nudo le viscere di una umanità miserabile e ossessionata da ricorrenti manie al di sotto della vernice del benessere economico. Ricchi e colti, quasi tutti i personaggi di Puppa, ma meschini, disturbati, in conflitto con sé stessi e con le persone più vicine (familiari, amici, colleghi di lavoro). Perciò, personaggi che parlano e basta, e che anzi nella parola trovano, narcisisticamente, la loro ragion d’essere; antieroi che si raccontano senza veli, prodotti dalla realtà in cui prospera la borghesia “rampante” del Veneto. Laddove però, parafrasando Sciascia, nella drammaturgia di Puppa, il Veneto stesso diventa metafora di una condizione esistenziale universale.

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