Paolo Puppa, Scene che non sono la mia. Storia e storie di violenza nel teatro tra due millenni, Corazzano, Titivillus, 2019, pp. 184, €18,00
Drammaturgo e studioso di lungo corso Paolo Puppa, che nel corso degli ultimi decenni ha confezionato studi dedicati alla drammaturgia contemporanea, e non solo, che si possono considerare pietre miliari per chiunque si accosti alla storia del teatro. La sua ultima fatica è questo denso volume edito da Titivillus, nel quale sono ospitati tredici saggi ispirati e composti in diverse occasioni, e quindi dedicati ad un’ampia gamma di argomenti. Si tratta in effetti di un testo in cui le singole parti possono anche essere lette in maniera autonoma, proprio per questa caratteristica. Eppure un sottile filo rosso le connette le une alle altre: la violenza, come in modo ammiccante si chiarisce nel sottotitolo. Possiamo aggiungere anche l’eccesso, la trasgressione, la declinazione di quel torbido inquietante che sedimenta nell’anima del soggetto e che, tramite autori e attori, prende corpo e sostanza sulle tavole del palcoscenico o, in alternativa, nella pagina scritta.
Le trame dell’ossessione, quindi, sono scandagliate fittamente in questo volume che, nella sequenza di primi piani che propone, è arricchito da notazioni trasversali; da interferenze che il critico architetta basandosi su un apparato bibliografico poderoso, e su una erudizione alimentata non solo dagli studi trans-disciplinari, con sapienti dosaggi di antropologia, filologia, semiotica, psicoanalisi, filosofia, ma dalla stessa frequentazione pratica del palcoscenico (oltre la scrittura pura e semplice).
Così, scorrendo i diversi saggi di questa ricca silloge, ci si imbatte nelle questioni e nelle espressioni artistiche più disparate: dalla sapiente analisi dell’epifania del mito biblico di Abramo, seguito attraverso le piste tracciate, oltre che dalla fonte biblica primaria, da autori come Savinio, Kierkegaard, Sartre. A conferma della scelta, consapevolmente perseguita dallo studioso, di puntare su un approccio pluridisciplinare all’esame della raggelante rappresentazione della frana dell’istituto familiare che è al centro di tanta drammaturgia «notturna» del Novecento (pp. 29-42). In questo grande affresco dedicato allo spirito iconoclasta che innerva il teatro contemporaneo non poteva mancare anzitutto il riferimento, praticamente obbligato, alle Avanguardie e a Pirandello, autentici rivoluzionari della scena. E cantori di quel caos di cui lo scrittore agrigentino, con evidente compiacimento, si dichiarava «figlio». Puppa, passando in rassegna diversi testi esemplari di alcuni futuristi, oltre che di Pirandello, indugia con tocco leggero ma profondo sul carattere dirompente di una operazione culturale che punta a travolgere, non solo le consolidate regole del teatro borghese, ma anche a sciogliere tutte le incrostazioni moralistiche; tutte le pulsioni censorie e repressive. Pirandello è, in particolare, argomento del lungo saggio che apre la seconda sezione del volume (Scritture in primo piano), e il lettore viene qui accompagnato idealmente in un viaggio che, attraversando epistolari e testi esemplari, si trova sorprendentemente a fare i conti con un aspetto dello scrittore siciliano che solo di recente comincia a profilarsi chiaramente: un autore segnato da ossessioni e turbamenti, invischiato in un disturbato rapporto amoroso (abortito) con la Abba, in cui lo studioso discerne l’ennesima epifania dolorosa di quelle pulsioni incestuose che costellano diversi momenti cruciali della vita e dell’avventura artistica dell’agrigentino. A questo saggio monotematico, se così può essere definito, seguono interventi dedicati a letture incrociate dense di suggestioni. Come quella che segnala l’ibridismo di un autore eccentrico come Kiš, autore di un Giardino, cenere e di altre opere in cui l’approccio scettico alle tematiche esistenziali, secondo Puppa, è la spia di una convergenza con Svevo che può essere declinata in diverse direzioni.
Tra i saggi successivi segnaliamo in questa sede quello dedicato alla Trilogia di Scabia (pp. 85-98) e quello in cui si parla di un autore tra i più affascinanti e studiati, quale Kleist, di cui il critico analizza in particolare l’Anfitrione (pp. 99-116). In questa sezione, come si vede, ad essere in primo piano è soprattutto la questione della scrittura drammaturgica. Ma se ci si limitasse ad essa non si darebbe quella visione d’insieme della scena a cui in realtà punta il lavoro di Paolo Puppa. Perciò nel volume vengono inseriti alcuni saggi nei quali sono gli interpreti che calcano le scene ad attrarre l’attenzione dello studioso e del lettore. Così in Maria Callas: una voce di carta (pp. 117-127). Così in Gustavo Modena dramaturg e lettore di Dante (128-140). In questo contesto non poteva mancare quello straordinario mattatore che è stato Dario Fo, al quale Puppa riconosce il ruolo di autentico caposcuola nell’ambito di quel «teatro di narrazione» consacrato da artisti del calibro di Paolini.
A questo punto, senza trascurare le pennellate rapide ma precise con cui si tratteggiano altri protagonisti della scena, come Eugenio Barba, ci sembra di poter dire che ci sono tutti gli elementi indispensabili per cogliere la ricchezza di un lavoro che non può mancare nella biblioteca degli studiosi della drammaturgia contemporanea. Aggiungiamo che i saggi confluiti in questo stesso volume hanno quella vivacità e quel brio espressivo che spesso difetta nei tradizionali studi accademici, senza perciò inficiare la limpidezza della prosa. E proprio per questo, anche per questo, la lettura di questo lavoro di Paolo Puppa risulta intrigante e appassiona. Forse, proprio perché mette insieme tessere tanto diverse a comporre un mosaico così ricco di figure che fanno il teatro della memoria e la memoria del teatro.
ALFREDO SGROI