Puppa e la recita in(i)nterrotta (su resistenze quotidiane)

Se il cielo è vuoto, se non si ha più nostalgia per il sacro, anzi lo si sbeffeggia, se non si crede più possibile una palingenesi sociale ed economica che radicalmente rimetta in ordine le ingiustizie tra chi vive (pochi) in una ricchezza esorbitante e tra chi (la stragrande maggioranza dell’umanità) è al di sotto dei livelli minimi di sussistenza, allora ci si richiude nel perimetro garantito ma stanco di una laicità borghese che non ha più molto da chiedere alla vita. Certo, sarà ancora possibile sfogliare in modo distratto e annoiato le pagine di Repubblica o mandare qualche invettiva a Salvini, come fa Piero nella “Collina di Euridice” (commedia di Paolo Puppa, Premio Pirandello ’96), o alzare muri intorno alle nostre rassicuranti villette a schiera con giardino e pitbull per paura dello “straniero”, ma resterà immedicabile l’incapacità di capire il senso più profondo dell’esistenza. Ed ecco, allora, che risulterà addirittura benemerita l’azione di un virus venuto da lontano o la guerra alle nostre porte per fare il lavoro tanto sporco quanto necessario di interrompere la catena generazionale. “Meglio sarebbe stato non nascere”, come dicevano un po’ retoricamente gli antichi greci e ribadito a gran voce dal grande Giacomino Leopardi nelle Operette morali, richiamato legittimamente da Puppa nella breve prefazione di un suo prezioso volume, “Il teatro della pandemia”. [continua a leggere l’articolo di Pasquale De Cristofaro QUI]

La fine del mondo: una vita in serie, recensione di Alfredo Sgroi

La sfilata dell’ordinaria follia comincia. In un ambiente asettico, cioè un anonimo ufficio, si consuma il dramma a distanza di un’anziana costretta da familiari cinici a lasciare la sua abitazione… Ancora più violenta è la vita di un mostro che si cela sotto i panni di un placido pensionato precoce. Costui confessa con sconcertante distacco una catena di atroci delitti. Pura espressione di una brutalità senza senso. Di una follia che esplode tra le calli veneziane, declinando verso la perversione sessuale, all’interno di una sfera familiare in cui il mostro si acquatta, pronto a colpire a tradimento. Perché è all’interno della famiglia che esplodono i drammi più dilanianti… Così è in un monologo in cui è riformulata l’immagine di un figlio giunto al capolinea di un’esistenza sordida da voyeur, incagliata tra l’edipica ostilità nei confronti del Padre e la rancorosa relazione con gli altri familiari… E così è per un tarato scrittore frustrato e vagamente omosessuale, inferocito con la sorella lesbica e coinvolto in una devastante crisi coniugale che si incrocia con il fallimento professionale. Come ossessionato è Lorenzo, genero di Shylock. O il lupo che, in un’atmosfera surreale, racconta a suo modo la vera storia di Cappuccetto rosso, dilaniata da un branco di lupi. Dal surreale si passa al virtuale – ma è un virtuale tristemente ancorato alla peggiore realtà – e poi a un insieme di schegge diaristiche [continua a leggere su Mangialibri]

Paolo Puppa, finzione e morale (su Succede oggi)

Il celebre storico del teatro Paolo Puppa raccoglie una serie di frammenti per la scena nei quali la finzione dialoga con la morale. Perché l’aggressione seriale delle immagini imposte dai telefonini si combatte solo con il teatro

Storico del teatro tra i più prestigiosi in Italia, Paolo Puppa da tempo è anche – come dire? – un performer che mette in scena la sua perizia critica. Si può sostenere a buona ragione, anzi, che abbia inventato un nuovo genere di derivazione saggistica, ma di fatto pienamente teatrale, poiché Puppa i suoi “testi” (fiction scenica con un solido aggancio alla critica delle idee) li mette in scena in prima persona, esponendosi come attore. O performer, appunto, come è meglio affermare. [continua a leggere su SuccedeOggi]

Teatro della pandemia (rec, di Alfredo Sgroi su Mangialibri)

Si fa corpo e verbo un poco delirante, il Covid, nel primo dramma (Non rinuncio a te per un pipistrello). E impietosamente scava nelle ossessioni degradanti di un’umanità allo sbando. Frastornata dall’esplosione dell’epidemia, ma già ben prima infetta nell’anima dal morbo del nichilismo. Obiettivo prioritario del virus monologante è quello di far rinsavire gli uomini, e ricordare loro che il gioco della vita sta per finire. Per tutti: sovrani, capi di governo, gente comune. Inutili il confinamento o l’insensato aggrapparsi alle vecchie futilità… [si invita a proseguire la lettura su Mangialibri]

La recita interrotta (rec. su L’immaginazione)

M. Antonietta Grignani, recensione a Paolo Puppa, La recita interrotta. Pirandello: la trilogia del teatro nel teatro, Bulzoni, Roma 2021, euro 19.

E’ proprio vero che un classico è un autore che non finisce mai di dire quello che ha da dire e in questo libro Paolo Puppa, noto esperto del teatro pirandelliano, lo dimostra, sia nella persona di Pirandello sia nella propria di critico affezionato. Scritto nell’anno 2020 in piena pandemia e chiusura delle biblioteche, lo studio rappresenta la riflessione dello specialista a ridosso del centenario della prima dei Sei personaggi in cerca d’autore al teatro Valle di Roma (9 maggio 1921), che scatenò al momento un putiferio di reazioni negative e di pesanti malintesi, ma fu destinato ben presto a diventare il titolo-simbolo della ‘rivoluzione’ pirandelliana a livello internazionale. Nel prologo Puppa nota una curiosa analogia tra la situazione della scena, prima che irrompano i sei personaggi (un teatro vuoto, una compagnia teatrale «disunita e mestierante», un capocomico che tenta di mettere in prova Il giuoco delle parti, cioè un testo di Pirandello stesso), tra tale situazione e il blocco di produzione nel contatto vivo con il pubblico che il confinamento della pandemia ha protratto per più di un anno non solo in Italia.  Osserva un po’ malinconicamente nella chiusa della premessa, a distanza di molti decenni dal primo suo libro sul teatro pirandelliano, che risale infatti al 1978: «Un’energia ancora in movimento, che trascina con sé detriti, scorie come gli stereotipi fastidiosi del pirandellismo, ma anche pietre preziose ad arricchire la scena futura. Se ci sarà futuro».

Corredato da note bibliografiche aggiornatissime, il lavoro prende in carico nell’ordine cronologico gli elementi della cosiddetta trilogia del teatro nel teatro, ma intesse incroci puntuali e continui con spunti e temi frequentati altrove da Pirandello, nella narrativa, nelle riflessioni critiche e perfino in alcuni trattamenti cinematografici. Per i Sei personaggi si ricordano lo scenario scritto senza esito di realizzazione con Adolf Lantz, che, diversamente dalla pièce teatrale, ruotava intorno alla figura dell’Autore alla scrivania assediato dai personaggi; ancora prima la novella Quand’ero matto e i Colloqui coi personaggi. L’analisi della materia scabrosa legata a un potenziale incesto e al macrotema “la famiglia che uccide” è sottile, attenta alle varianti che furono introdotte nelle successive edizioni, sempre verificata su passaggi precisi del testo. Altro pregio del discorso di Puppa è l’attenzione alle rappresentazioni, per esempio quella del 1925 con interprete nella veste della Figliastra proprio la Musa dell’anziano commediografo Marta Abba, che era coetanea della figlia di Pirandello Lietta, andata in Cile con il marito Manuel Aguirre, per la quale il padre nutriva un «sentimento trasparente di siciliana gelosia». Con delicatezza e senza oltranze interpretative Puppa mostra in quali forme si realizzi la demonizzazione della famiglia tra il sottofondo biografico e il gioco dell’arte.

Per Ciascuno a suo modo, ripresa in chiave metateatrale di temi drammatici o meglio melodrammatici di Si gira … (intitolato poi Quaderni di Serafino Gubbio operatore), il suicidio dell’artista e le altre figure che ruotano intorno al triangolo, al fattaccio di cronaca e di chi ci ragiona intorno, sono in realtà pretesto per esibire in scena – ma anche mettere in forse – la duplicazione teatrale e quindi intrigare la ricezione, ponendo a soqquadro la scena che sfonda la quarta parete. Anche qui Puppa lavora tra rinvii di intertestualità interna, echi di cronaca nera a sfondo giornalistico che potrebbero avere influenzato Pirandello, sollecitazioni di tipi alla moda come la figura della vamp nevrotica e distruttrice di partner maschili per ribadire, al di là delle infinite variazioni, «la scoperta improvvisa da parte dell’io, nello sguardo dell’interlocutore, di essere diverso da come il primo si immagina». La storia delle rappresentazioni, la prima del maggio 1924 ai Filodrammatici di Milano e quella parigina del 1926 nella traduzione di Benjamin Crémieux, ripercorre entusiasmi e incomprensioni che all’inizio caratterizzano l’accoglimento delle innovazioni pirandelliane.

L’azione scenica espansa negli sconfinamenti fuori dal palco torna in Questa sera si recita a soggetto, altra pièce studiatissima dalla critica, riportata da Paolo Puppa alle sue dimensioni storiche e di contesto, comprese le varie rappresentazioni più o meno turbolente e gli aggiornamenti bibliografici. La drammaturgia confezionata per il sistema tedesco, la macchina scenica fitta e destabilizzante, il riassorbimento della novella Leonora, addio!, l’orrore di una passione malsana ossia l’inferno di coppia, il cruccio sulla centralità dell’Autore, tutto amplifica temi e modi messi all’opera nei due precedenti drammi.

Insomma, il ritorno di un noto storico del teatro (a sua volta autore) va festeggiato nella coerenza di una intera carriera di specialista e nella perdurante attualità di un classico del Novecento.

Cinediario (recensione su Quaderni d’altri tempi)

Scene che non sono la mia (rec. di Alfredo Sgroi)

Paolo Puppa, Scene che non sono la mia. Storia e storie di violenza nel teatro tra due millenni, Corazzano, Titivillus, 2019, pp. 184, €18,00

 

Drammaturgo e studioso di lungo corso Paolo Puppa, che nel corso degli ultimi decenni ha confezionato studi dedicati alla drammaturgia contemporanea, e non solo, che si possono considerare pietre miliari per chiunque si accosti alla storia del teatro. La sua ultima fatica è questo denso volume edito da Titivillus, nel quale sono ospitati tredici saggi ispirati e composti in diverse occasioni, e quindi dedicati ad un’ampia gamma di argomenti. Si tratta in effetti di un testo in cui le singole parti possono anche essere lette in maniera autonoma, proprio per questa caratteristica. Eppure un sottile filo rosso le connette le une alle altre: la violenza, come in modo ammiccante si chiarisce nel sottotitolo. Possiamo aggiungere anche l’eccesso, la trasgressione, la declinazione di quel torbido inquietante che sedimenta nell’anima del soggetto e che, tramite autori e attori, prende corpo e sostanza sulle tavole del palcoscenico o, in alternativa, nella pagina scritta.

Le trame dell’ossessione, quindi, sono scandagliate  fittamente in questo volume che, nella sequenza di primi piani che propone, è arricchito da notazioni trasversali; da interferenze che il critico architetta basandosi su un apparato bibliografico poderoso, e su una erudizione alimentata non solo dagli studi trans-disciplinari, con sapienti dosaggi di antropologia, filologia, semiotica, psicoanalisi, filosofia, ma dalla stessa frequentazione pratica del palcoscenico (oltre la scrittura pura e semplice).

Così, scorrendo i diversi saggi di questa ricca silloge, ci si imbatte nelle questioni e nelle espressioni artistiche più disparate: dalla sapiente analisi dell’epifania del mito biblico di Abramo, seguito attraverso le piste tracciate, oltre che dalla fonte biblica primaria, da autori come Savinio, Kierkegaard, Sartre. A conferma della scelta, consapevolmente perseguita dallo studioso, di puntare su un approccio pluridisciplinare all’esame della raggelante rappresentazione della frana dell’istituto familiare che è al centro di tanta drammaturgia «notturna» del Novecento (pp. 29-42). In questo grande affresco dedicato allo spirito iconoclasta che innerva il teatro contemporaneo non poteva mancare anzitutto il riferimento, praticamente obbligato, alle Avanguardie e a Pirandello, autentici rivoluzionari della scena. E cantori di quel caos di cui lo scrittore agrigentino, con evidente compiacimento, si dichiarava «figlio». Puppa, passando in rassegna diversi testi esemplari di alcuni futuristi, oltre che di Pirandello, indugia con tocco leggero ma profondo sul carattere dirompente di una operazione culturale che punta a travolgere, non solo le consolidate regole del teatro borghese, ma anche a sciogliere tutte le incrostazioni moralistiche; tutte le pulsioni censorie e repressive.  Pirandello è, in particolare, argomento  del lungo saggio che  apre la seconda sezione del volume (Scritture in primo piano), e il lettore viene qui accompagnato idealmente in un viaggio che, attraversando epistolari e testi esemplari, si trova sorprendentemente a fare i conti con  un aspetto dello scrittore siciliano che solo di recente comincia a profilarsi chiaramente: un autore segnato da ossessioni e turbamenti, invischiato in un disturbato rapporto amoroso (abortito) con la Abba, in cui lo studioso discerne l’ennesima epifania dolorosa di quelle pulsioni incestuose che costellano diversi momenti  cruciali della vita e dell’avventura artistica dell’agrigentino. A questo saggio monotematico, se così può essere definito, seguono interventi dedicati a letture incrociate dense di suggestioni. Come quella che segnala l’ibridismo di un autore eccentrico come Kiš, autore di un Giardino, cenere e di altre opere in cui l’approccio scettico alle tematiche esistenziali, secondo Puppa, è la spia di una convergenza  con Svevo che può essere declinata in diverse direzioni.

Tra i saggi successivi segnaliamo in questa sede quello dedicato alla Trilogia di Scabia (pp. 85-98) e quello in cui si parla di un autore tra i più affascinanti e studiati, quale Kleist, di cui il critico analizza in particolare l’Anfitrione (pp. 99-116). In questa sezione, come si vede, ad essere in primo piano è soprattutto la questione della scrittura drammaturgica. Ma se ci si limitasse ad essa non si darebbe quella visione d’insieme della scena a cui in realtà punta il lavoro di Paolo Puppa. Perciò nel volume vengono inseriti alcuni saggi nei quali sono gli interpreti che calcano le scene ad attrarre l’attenzione dello studioso e del lettore. Così  in Maria Callas: una voce di carta (pp. 117-127). Così in  Gustavo Modena dramaturg e lettore di Dante (128-140). In questo contesto non poteva mancare quello straordinario mattatore che è stato Dario Fo, al quale Puppa riconosce il ruolo di autentico caposcuola nell’ambito di quel «teatro di narrazione» consacrato da artisti del calibro di Paolini.

A questo punto, senza trascurare le pennellate rapide ma precise con cui si tratteggiano altri protagonisti della scena, come Eugenio Barba, ci sembra di poter dire che ci sono tutti gli elementi indispensabili per cogliere la ricchezza di un lavoro che non può mancare nella biblioteca degli studiosi della drammaturgia contemporanea. Aggiungiamo che i saggi confluiti in questo stesso volume hanno quella vivacità e quel brio espressivo che spesso difetta nei tradizionali studi accademici, senza perciò inficiare la limpidezza della prosa.  E proprio per questo, anche per questo, la lettura di questo lavoro di Paolo Puppa risulta intrigante e appassiona. Forse, proprio perché mette insieme tessere tanto diverse a comporre un mosaico così ricco di figure che fanno il teatro della memoria e la memoria del teatro.

 

 

ALFREDO SGROI