Paolo Puppa, finzione e morale (su Succede oggi)

Il celebre storico del teatro Paolo Puppa raccoglie una serie di frammenti per la scena nei quali la finzione dialoga con la morale. Perché l’aggressione seriale delle immagini imposte dai telefonini si combatte solo con il teatro

Storico del teatro tra i più prestigiosi in Italia, Paolo Puppa da tempo è anche – come dire? – un performer che mette in scena la sua perizia critica. Si può sostenere a buona ragione, anzi, che abbia inventato un nuovo genere di derivazione saggistica, ma di fatto pienamente teatrale, poiché Puppa i suoi “testi” (fiction scenica con un solido aggancio alla critica delle idee) li mette in scena in prima persona, esponendosi come attore. O performer, appunto, come è meglio affermare. [continua a leggere su SuccedeOggi]

Fotomontaggi per la pandemia

lsa Fonda, scrittrice e commediografa triestina, nonché ex annunciatrice Rai, ha raccolto quarant’anni di fotomontaggi del marito Mario Scarpati, pittore napoletano nonché grande incisore. La tecnica di quest’ultimo rispecchia la pluralità del reale, i mutamenti degli spazi e dei tempi nella successione, in questo caso nella contiguità, di immagini diverse. Sono collages di frammenti caotici, nati da un minuzioso lavorio di taglia/cuci con forbici e colla. Allo stesso modo con cui si dà vita a una pellicola filmica, si utilizzano fotografie e manifesti ritoccati e ridisegnati con interventi ulteriori di inchiostri e pennarelli. Lo si sfoglia, il libro, e si avverte da subito un rabbioso disincanto riguardo al mondo, e insieme un’incertezza tra la rinuncia (acuita oggi dal virus) a sperare nella salvezza e la voglia, la necessità di continuare a sperare. Attraverso una serie di puzzle in apparenza ludici ci scorre davanti una storia d’Italia infelice e gaudente, un’antologia di orrori tra mafie, stragi impunite, catastrofi innaturali, ossia determinate dal malcostume e dall’incuria. [si può continuare la lettura dell’intero articolo sulla rivista Doppiozero]

Filottete di Paolo Puppa (per Visioni del tragico)

Filottete, nel mito,  viene abbandonato su un’isola deserta dall’esercito greco che naviga verso Troia, perché disturba la comunità con le sue grida di dolore. Filottete è affetto da una ferita inguaribile, che lo rende diverso dagli altri e inservibile come soldato. Al decimo anno di guerra, però, quando i Greci non hanno ancora conquistato Troia, un oracolo predice loro che la città cadrà solo quando Filottete e il suo arco verranno riportati sotto le mura della città assediata.

Così l’eroe inutile, anzi dannoso, si rivela indispensabile e unica ancora di salvezza per l’esercito che lo ha lasciato solo, condannato a vivere allo stato brado, per nove lunghi anni: Filottete, infatti, non porta con sé solo una ferita insanabile, ma anche uno strumento miracoloso, divino: ossia un arco, che gli ha permesso di cacciare gli animali e dunque sopravvivere nella sua assoluta solitudine; con quello stesso arco, e solo con quell’arco, la guerra può esser vinta.

[si continui la lettura su VisioniDelTragico]

Ritratto dello storico da vecchio, su Mario Isnenghi (articolo uscito per Doppiozero)

Occasionata dai vapori delle Terme euganee da lui scoperte di recente, mentre si rilassa tra piscine calde e saune scenografiche, la memoria si scioglie e Mario Isnenghi, il celebre professore di storia contemporanea in pensione, autorità internazionale e quasi star mediatica nel “grandeguerrismo”, torna indietro nel tempo e, con il recente Vite vissute e no. I luoghi della mia memoria (Il Mulino, 2020) ci racconta la sua vita. Ha sempre cercato di viaggiare, del resto, fin da ragazzo, in giro per il nostro paese, e oltre. Stavolta, sfoglia il calendario all’indietro. Ebbene, prendete Il paese dei Mezaràt (2002) di Dario Fo, epopea sulla prima infanzia dell’attore figlio di ferroviere attorno al lago Maggiore, e Il Regno (2014) di Emmanuel Carrère, scrittore francese che descrive la conquista del suo laico disincanto. Mescolate con garbo il tutto ed ecco queste madeleines. Quanto al primo aggancio, qualche perla dialettale alla Meneghello, il “giro del paleto” (dove passa la Regata sotto la sua casa in affitto sul Canal Grande di fronte alla Stazione) “pòpo,” “putelott” e i “piazzaròi” (partigiani comunisti) contrapposti ai “poaréti”, “faso tuto mi”, “Oeghel”, ossia Hegel tra i banchi di scuola. Per il secondo, il racconto procede come un romanzo di formazione, dal 1938, anno di nascita a Venezia, sino all’oggi, tra snodi e strappi, come dal mondo cattolico (mai democristiano e piuttosto inquieto tra Mounier, Bernanos, e Weil per quanto lo riguarda) dopo i diciott’anni e dalla FUCI, l’Associazione degli universitari, all’UGI, alla sinistra e/non comunista. In mezzo, il rodaggio tra il ’58 e il ‘59, all’ombra di «Questitalia» di Wladimiro Dorigo, suo mentore geniale battitore libero con il gusto del minoritario. Autofiction storica, questo il genere ibrido del volume. E l’autore del resto fa lo storico nel crinale della letteratura, doppia competenza che agli inizi non ne ha agevolato la carriera accademica. (Il resto dell’articolo è consultabile sulla testata Doppiozero)

‘Notturno per attrice goldoniana: donne di vapore e donne di spirito’ a Casa Goldoni

 

‘Notturno per attrice goldoniana: donne di vapore e donne di spirito’ a Casa Goldoni

 

Articolo di Leila Aghakhani Chianeh

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L’ambiguità dei ruoli disseminata, con motivazioni diverse, un po’ in tutti i grandi ritratti femminili goldoniani, dalla Vedova scaltra alla Putta onorata, dalla Serva amorosa alle Massere, completa il panorama sulla condizione e sul vissuto della donna nella Venezia del Settecento, sia sociale che teatrale, filo conduttore negli eventi di febbraio.

Nella giornata dedicata al commediografo, abbiamo deciso di avvalerci di una rappresentazione contemporanea che ha il pregio di riassumere nel modo migliore quello che lo stesso Goldoni ha voluto dire sulla donna e sulle donne.

Notturno per attrice goldoniana: donne di vapore e donne di spirito, al debutto nella Biennale del 2006. Una simile proposta, meno canonica rispetto a certi stereotipi ai quali siamo stati abituati da tante messinscene, spesso accattivanti per un pubblico pigro, appare indubbiamente più aderente alla vita quotidiana, osservata dall’autore settecentesco. La rilettura e la rielaborazione di materiali goldoniani operate da Paolo Puppa, docente, studioso e drammaturgo, rivelano molteplici aspetti nelle protagoniste, la padrona e la serva, affidate ad una voce sola, che in tal modo si sdoppia quasi in preda a scissioni schizofreniche. [continua a leggere su NonSoloCinema]

Paolo Puppa, uno scrittore in laguna

Puppa, uno scrittore in laguna

TRIESTE

 

Singolare uomo di teatro, il professor Paolo Puppa. Anzi plurale. Ai suoi studenti, all’Università di Venezia, Puppa spiega la storia dello spettacolo. Ma la familiarità con autori, testi, registi ha insegnato, e stavolta a lui, che il teatro non si può solo insegnare. Si deve anche vivere. Così da qualche anno il professore si è trasformato in autore, e pure in attore, o come preferisce dire lui, performer. Il pubblico della Contrada lo ha visto scivolare dall’uno all’altro ruolo in uno degli appuntamenti di “Teatro a leggìo”, l’iniziativa ideata da Mario Licalsi.
Accompagnato dalla fisarmonica di Carlo Moser, Puppa letto “Svevo a Venezia”, un monologo nato dalle lettere che l’impiegato Ettore Schmitz, prima di trasformarsi completamente nello scrittore Italo Svevo, spediva alla moglie Livia dalla “prigione” aziendale di Murano.
Un soggiorno lagunare obbligato, meglio, un sequestro, a cui era stato costretto dalla suocera-manager Olga Veneziani. Assimilato in una delle più importanti famiglie di industriali triestini (possedevano il segreto della famosa vernice sottomarina antialghe), Ettore aveva subìto il diktat della temibile capitana d’industria.
Niente più letteratura, dopo il fiasco del romanzo “Senilità”, soltanto lavoro. Ed era stato spedito a Murano, dove la ditta Veneziani aveva uno dei suoi stabilimenti. Sulla carta era direttore di produzione, in realtà doveva respirare i velenosi miasmi delle fornaci, sorvegliare le reazioni chimiche, condividere la sorte dei suoi operai.
Un sollievo, tra le angustie di un’isola poco ospitale, le lettere scritte ogni giorno alla moglie. Un modo per mantenere viva la quotidianità coniugale, e anche un espediente per “tenere in esercizio la penna”. Aspettando che la letteratura, prima o poi, si rioccupasse di lui.
Davanti a un leggìo, con la voce mite e querula del sequestrato di Murano, Paolo Puppa ha trasformato le lettere in un diario dalla prigione. Sotto l’abito dell’accademico abituato a scrivere saggi su Fo, Pirandello, Ibsen, e di recente una vivace biografia “non-autorizzata” su Cesco Baseggio (“Ritratto dell’attore da vecchio”, CiErre Edizioni,12,50 euro), il performer Puppa ha svelato ciò che dà vita teatrale a un libro, o a un saggio universitario. Coloriture dialettali, osservazioni puntute, slarghi di prosa, insomma l’ineffabile ironia sveviana, colta nel punto esatto dove la autobiografia si fa romanzo, proprio dentro al laboratorio dello scrittore. Segreti che Puppa conosce bene, visto che ai copioni che lui stesso ha scritto per il teatro (oltre una ventina, spesso rivisitazioni contemporanee dei personaggi della mitologia) va aggiunta anche la sua attività di romanziere. “Venire, a Venezia” (Bompiani, 5,60 euro) è una recente ricognizione su dodici vite private in laguna, storie di personaggi bizzarri legati dalla comune residenza veneziana, e da un titolo “dove la virgola è indispensabile, come cifra urbanistica e turistica, ma anche come allusione alla sessualità privata” dice l’arguta nota di copertina. Scritta, chissà, dallo stesso poligrafo professore.
Roberto Canziani

(articolo del  17/3/2004 da La Repubblica)

“Il muro incinto” recensione

da LA NUOVA SARDEGNA del 20 novembre 2015

di Enrico Pau

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Giorni fa per “Sardegna dei Teatri” a Nuoro e Pirri Giovanni Carroni ha presentato”Il muro incinto” di Paolo Puppa, omaggio al grande Antine Nivola di Orani. Come un romanzo di formazione si dipana la storia basata sulle memorie dello scultore, indossate da Carroni come un abito liso, ma elegante, prezioso come quello della festa. Questo spettacolo, più di tanti testi antropologici ci fa capire come si viveva nei nostri paesini, lontani da tutto, avvolti in una miseria solida, materica, stremati da fame antica, primitiva. Antine è un bambino che, come tanti di allora, non ha potuto vivere l’infanzia in forma spensierata. L’infanzia è la porta della vita, e la vita dei poveri è uguale a tutte le latitudini: lotta per sopravvivere. Lavorare a sei anni, dormire in un letto con altre sei persone, senza un bagno, stremati da dissenteria e febbre. Molti non sopravvivevano. Ad Antine però l’arte gli ha salvato la vita. Questo il tema centrale dello spettacolo poetico e ipnotico di Carroni. Non è teatro di narrazione perché Carroni è personaggio, è Antine stesso, accompagnato sulla scena da luci che illuminano un fondale di bellezza pittorica disegnato da Carroni stesso e Marco Nateri, simbolo del mondo visionario di un bambino nato artista per osservare la natura, fonte primaria di visioni, i suoi muri incinti, le sue pietre che si modellano per il movimento del vento e lo scorrere dell’acqua. La memoria è una ferita, una fuga dalla miseria della propria terra, fuga dal fascismo, e poi l’America, e New York e gli incontri con i grandi artisti, come lui. L’arte ci dice Carroni /Antine non ha bisogno di scuole, per essere artisti basta ascoltare la poesia che scorre con le orecchie, gli occhi e il cuore. Spettacolo potente, come le sculture di Antine, plastico, ma insieme solido e materico come una voce che ferisce il silenzio, che arriva da lontano, dolce come la lingua della madre, malinconico come una fotografia amata da sempre e conservata vicino al cuore. Oggi alle 21 a Bocheteatro di Nuoro e domani alla Vetreria di Pirri va in scena “Amore e anarchia” del teatro delle Albe, in scena con Luigi Dadina e Michela Marangoni.

FINALLY, FORMS DEFINE THEMSELVES BY THEIR ABSENCE, THEIR FELT OMISSIONS.

FINALLY, FORMS DEFINE THEMSELVES
BY THEIR ABSENCE,
THEIR FELT OMISSIONS.
(Iahb Hassan, The dismemberment of Orpheus,
Oxford, Oxford University Press 1982 p. 10)

Sull’orlo del boccascena

Autore eclettico, capace di misurarsi con canoni, linguaggi e ruoli sempre nuovi, Paolo Puppa ha costruito nel tempo un corpus di opere che appare oggi uno dei più fecondi della drammaturgia contemporanea. Proprio le caratteristiche che rendono il suo nome uno dei più suggestivi della cultura letteraria e teatrale dell’Italia nel nuovo millennio, ne rendono difficile una presentazione lineare, una presentazione che da considerazioni iniziali approdi ad una qualsiasi conclusione definitiva. Si tenterà, allora, di mettere a fuoco delle questioni che attraversano i suoi testi in maniera tale da fornire un primo strumento di lettura utile tanto all’analisi della parte critica della sua opera quanto di quella più strettamente drammaturgica.
Mito, malattia, monologo e voci che si intrecciano, creano la tessitura di una drammaturgia eterodossa, spesso capace di valutare se stessa convergendo su considerazioni che fanno parte dell’opera critica. Vice versa accade spesso che la pagina critica sia costruita come racconto consumabile, piéce da palcoscenico capace di rapire l’attenzione del lettore fino ad identificarsi con una delle pagine della sua drammaturgia. Proprio qui, in questo strano intreccio di possibilità e di specificità tra arte drammatica e critica, risiede la novità dell’opera di Paolo Puppa. Sintesi perfetta di questa intelaiatura di trame e orditi, è la figura del Performer Monologante, figura in bilico tra il teatro narcisistico del mattatore e il bisogno di riscoprire una parola nuova, che esprima il senso di una dolorosa consapevolezza del presente.
Sull’orlo del boccascena, c’è un uomo, solo, che guarda i frammenti della sua esistenza sparsi intorno, tentare di ricomporsi in un’unità impossibile. E’ l’uomo postmoderno: esitante, indeterminato, instabile e dispersivo, costruttore di realtà parallele che possiedono uno statuto di verità altrettanto reale. Il postmoderno, se non altro per ragioni anagrafiche, è canone e ipotesi interpretativa da cui partire per tentare di dare uno statuto alla drammaturgia di Paolo Puppa, costruita sulla crisi d’identità dei personaggi, sull’impossibilità di una comunicazione costruttiva, su un tempo irrigidito ad asettico presente, su uno spazio che non riesce ad essere davvero collocato da nessuna parte anche quando i luoghi vengono descritti nei minimi particolari e su un modello letterario che non è distintamente teatrale e neanche esattamente narrativo.
Per fare ordine all’interno di quel corpus che fino ad ora abbiamo considerato come unicum concettuale, riflettendo su temi, novità e particolarità, è necessario riconoscere al suo interno delle fasi di produzione. In corrispondenza con l’arrivo del nuovo millennio, esattamente nel 2000, Puppa scrive Famiglie di Notte, edito a Palermo dalla Sellerio, e nel 2002 è la volta di Venire, a Venezia (Milano, Bompiani): due opere il cui confine tra teatralità e narratività si snoda lungo una invisibile linea di demarcazione per cui accade che il genere di appartenenza oscilli e non vi sia la possibilità di dare alle pagine statuto definitivo. Il 2003 è, poi, l’anno di Angeli ed Acque. Cinque commedie veneziane (Corbo e Fiore, Venezia). Un’opera nella quale confluiscono cinque testi drammaturgici descritti dall’autore stesso come “commedie”, cinque ipotesi, all’apparenza testi dialogici, ma effettivamente lunghi monologhi di personaggi che non riescono, o non possono, comunicare tra loro.
Anche il 2004 si configura come anno proficuo per il teatro di Paolo Puppa: escono infatti proprio in questo anno Si, Famose (in ‹Passaggi>, 2) e Parole di Giuda (inedito). Il primo è un testo nelle forme si rifà a Famiglie di Notte proponendo una serie di monologhi recitati da donne famose, donne dell’arte, della storia e della leggenda, legati tra loro dalla circostanza forse più contingente di questo inizio di millennio: il crollo del World Trade Center per mano del terrorismo. Parole di Giuda, invece, è un testo più impegnativo, perfettamente inscrivibile nel movimento postmoderno, caratterizzato dal ribaltamento progressivo della morale occidentale e forse anche dalla sua decostruzione. Il monologo testamentario del protagonista, Giuda, appunto, ribaltando le categorie di giustizia divina e predestinazione ne riscatta la figura facendolo apparire come l’unico, vero martire della cristianità.

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